C’è un’Italia che si gioca ogni giorno in fila. Davanti a una porta chiusa, dietro una vetrata opaca, nel ronzio stanco di un neon che illumina scrivanie vuote. Lì si consuma il destino di chi ha bisogno di un certificato, di un’autorizzazione, di un diritto. Lì, in quella terra di nessuno che si chiama “ufficio pubblico”, si misura la distanza tra lo Stato e il cittadino.
Ad Agrigento, come altrove ma forse di più, il rapporto con la burocrazia ha il sapore amaro della rassegnazione. Non è solo lentezza. È spaesamento. È la sensazione di essere sempre un passo fuori posto, con il modulo sbagliato, l’ufficio errato, l’impiegato in ferie, il sistema fuori uso. Ogni tentativo di interazione con l’apparato diventa un racconto kafkiano in salsa meridionale, fatto di sigle incomprensibili, timbri che non timbrano e orari impossibili da incastrare con una vita normale.
Ci si alza presto, si va all’anagrafe con il foglio stampato, il documento alla mano, e si torna indietro con un’altra richiesta, un altro modulo, una nuova attesa. È un gioco di specchi in cui l’obiettivo si sposta sempre un po’ più in là. Serve un estratto? Occorre prenotare online. Ma il sito non funziona. C’è un centralino? Non risponde. C’è l’URP? Sì, ma solo il martedì dalle 9.12 alle 10.03. E non sempre.
In questo teatro dell’assurdo, la figura del cittadino si riduce a quella di un questuante, che bussa con educazione per avere ciò che già gli spetta. È questa l’umiliazione più profonda: dover chiedere il permesso per esercitare un diritto, doversi giustificare per esistere dentro i confini della legalità.
Ma il punto più grave non è nemmeno la disorganizzazione. È la selezione silenziosa che si compie attraverso di essa. Perché chi ha tempo, cultura digitale, pazienza e reti amicali, riesce — a fatica, ma riesce. Chi invece è solo, anziano, straniero, povero o semplicemente fragile, si perde. E allora rinuncia. Alla domanda di invalidità. All’iscrizione scolastica. Al ricorso. Alla cittadinanza.
È un’emorragia silenziosa, quella dei diritti non esercitati. Un’ingiustizia che non fa notizia, ma che mina la credibilità dello Stato ogni giorno, sportello dopo sportello.
E allora forse la vera domanda non è “come snellire la burocrazia”, ma: a chi serve mantenerla così com’è? Chi guadagna da questo labirinto? Chi si nutre dell’ignoranza, dell’impaccio, del silenzio di chi non sa a chi rivolgersi?
La modernizzazione annunciata a ogni legislatura resta lettera morta. E intanto, nei quartieri, nei piccoli comuni, negli uffici decentrati, il cittadino continua a bussare. E a sperare che qualcuno risponda.
Ma la burocrazia, in fondo, è una forma di linguaggio. E come ogni lingua, può includere o può escludere.
Bisogna decidere cosa vogliamo essere: uno Stato che accoglie o una macchina che respinge. Perché è lì, in quella finestra dell’ufficio comunale, che la democrazia mostra il suo volto. O il suo fallimento.

