Nel borgo di Burgio, incastonato tra le alture della provincia agrigentina, la Pasqua non si annuncia con le parole, ma con il suono. Un suono crudo, ossessivo, battente: quello delle Rigattiate di Burgio, un’antica pratica devozionale in cui centinaia di tamburi marciano, insieme, verso un tempo altro. Non si tratta di una semplice esibizione musicale. Qui il tamburo non accompagna la festa: la costituisce.
Questo rito, che si ripete ogni anno nel Venerdì Santo, si presenta come un atto corale, istintivo e arcaico, capace di restituire il senso profondo di una comunità che, battendo all’unisono, si riconosce, si racconta, si riappropria della propria identità.
Le Rigattiate di Burgio affondano le proprie radici in un terreno denso, dove si intrecciano liturgia cristiana, antropologia mediterranea e riti agrari precristiani. Se oggi il battito dei tamburi accompagna la processione del Cristo Morto, non è difficile cogliere in quel ritmo un’eco ben più remota: quella dei riti di passaggio, delle invocazioni di pioggia, delle danze propiziatorie delle civiltà contadine.
Il termine stesso, “rigattiate”, richiama l’idea di percussione insistente, quasi animalesca, un suono che nasce non per armonizzare, ma per scuotere, per rompere il silenzio, per fendere il dolore muto della morte. In questo senso, la Rigattiata è un gesto liminale: pone chi la compie e chi l’ascolta su una soglia, tra il lutto e la speranza, tra la vita che si spegne e quella che prepara a rinascere.
Una comunità che si batte e si ricompone
Durante le Rigattiate di Burgio, non vi sono spettatori: tutti sono coinvolti emotivamente. La comunità si raccoglie, si dispone lungo le strade e attende il passaggio della marcia dei tamburi come si attende una epifania collettiva. Ogni passo, ogni colpo è una dichiarazione di appartenenza, un richiamo ancestrale che non ha bisogno di parole.
Il gesto del percuotere non è meccanico, né spettacolare: è sacro e doloroso insieme. I tamburini, molti dei quali adolescenti o giovani uomini, si immergono in uno stato quasi trance, in cui la fatica diventa forma di offerta. Il ritmo non è solo udito: è vissuto nel corpo, nelle mani che si arrossano, nei volti che si tendono, nei piedi che marciano come in un’armata liturgica.
Le Rigattiate di Burgio sono, a tutti gli effetti, un documento vivente. Non un folklore da fotografare, ma una fonte orale, sonora, performativa, che dice molto più di quanto direbbe un archivio scritto. Qui si conserva, e si trasmette, un modo antico di vivere il sacro, fatto di gesti, odori, sudori e battiti.
Il tamburo, in questo contesto, non è mai “strumento musicale” in senso moderno. È medium tra la terra e il cielo, tra i vivi e i morti, tra il tempo lineare della vita quotidiana e il tempo circolare del mito e del rito. In ogni Rigattiata, infatti, c’è sempre anche il desiderio di riannodare i fili con i padri, di rivivere una memoria non nostalgica ma necessaria.
Un rito che si rinnova: il valore contemporaneo della Rigattiata
Oggi, in un’epoca in cui molte tradizioni tendono a dissolversi nel folclore turistico, le Rigattiate di Burgio resistono come forma autentica di memoria incarnata. Il paese continua a viverle non come una messinscena, ma come un atto vero, presente, coinvolgente, in cui fede e identità si intrecciano in modo inestricabile.
Le nuove generazioni non solo partecipano: riconoscono in questo rito una lingua che li supera e al contempo li fonda. Il tamburo, allora, diventa ponte tra passato e futuro, tra il bisogno di radici e il desiderio di espressione. È anche questo che rende le Rigattiate straordinariamente contemporanee: la loro capacità di essere, al tempo stesso, arcaiche e vive.
Le Rigattiate di Burgio non si spiegano, si ascoltano. O meglio: si attraversano. Non bastano le orecchie. Serve il cuore. Serve il corpo. Serve quel desiderio antico di appartenenza, che nessun algoritmo può replicare.
In un tempo che dimentica, Burgio continua a battere. E in quel battito c’è un popolo che non ha paura di ricordare. Non con le parole, ma con i tamburi.