Castrofilippo, piccolo comune abbarbicato nella campagna agrigentina, non è solo un luogo sulla mappa: è una radice nel tempo. E tra le zolle rosse e i venti arsi che modellano il paesaggio, nasce una pianta che non ha solo nutrito il corpo dei suoi abitanti, ma ha intrecciato con loro un rapporto quasi sacrale: la Cipolla Paglina di Castrofilippo.
Qui, la cipolla non è soltanto ortaggio, ma segno di appartenenza, cifra di una cultura che si è sempre pensata in relazione alla terra. La chiamano “paglina” per il colore delle sue tuniche dorate, simili alla paglia battuta dal sole. Ma sotto quella pelle si cela un cuore tenero, dolce, profumato: la memoria gustativa di generazioni intere.
Coltivare la Cipolla Paglina di Castrofilippo non è un’operazione agricola qualsiasi: è un gesto rituale, tramandato tra le generazioni come una preghiera fatta con le mani. Le sementi vengono selezionate con cura, conservate spesso nei cassetti più nascosti delle case contadine, quasi fossero reliquie.
La semina avviene ancora secondo i ritmi antichi: non quando conviene al mercato, ma quando il cielo e la terra lo permettono. Si zappa, si irriga, si attende. E l’attesa non è mai passiva: è attenzione, ascolto, dialogo con il suolo. Quando le prime cipolle affiorano, l’intero paese sembra chinarsi ad accoglierle, con la stessa reverenza con cui si accoglie un frutto sacro.
Una cipolla che nutre e guarisce: tra cucina e medicina
La Paglina non è solo buona: è anche benefica. Da sempre, i contadini le attribuiscono proprietà che vanno oltre il semplice valore nutrizionale. È digestiva, depurativa, diuretica. Ma soprattutto è un cibo che “fa bene” nel senso più profondo: perché non solo nutre il corpo, ma rafforza il legame con la memoria e la terra.
In cucina, la Cipolla Paglina di Castrofilippo è protagonista silenziosa ma essenziale. Dolce, tenera, mai aggressiva, accompagna piatti poveri e sontuosi con la stessa dignità. La si gusta cruda, a fettine sottili, con un filo d’olio e una spruzzata d’aceto, oppure stufata, caramellata, impastata nel pane. In ogni preparazione, c’è sempre un fondo di intimità antica.
Oggi, questo legame profondo tra il paese e la sua cipolla ha trovato una nuova forma di celebrazione pubblica: la Sagra della Cipolla Paglina di Castrofilippo, che si svolge ogni estate e trasforma il borgo in un grande convivio all’aperto. Ma non si tratta semplicemente di un evento gastronomico: è una festa della riconoscenza, un’occasione in cui il paese ringrazia la terra e se stesso.
Le strade si riempiono di profumi, le bancarelle espongono cipolle come opere d’arte, le ricette tradizionali vengono riproposte con orgoglio. Ma la sagra è anche musica, racconto, teatro. È il momento in cui la Paglina torna al centro della scena non come prodotto, ma come simbolo vivente della comunità che l’ha custodita.
La cipolla come narrazione del territorio
La Cipolla Paglina di Castrofilippo è una narrazione, non un semplice ingrediente. Racconta di terre arse, di fatica silenziosa, di donne chine nei campi all’alba, di uomini che sanno riconoscere l’umidità giusta nel respiro della notte. È un sapere tacito, che si trasmette per contatto, per sguardo, per gesto.
E oggi, in un’epoca in cui tutto tende alla velocità e alla semplificazione, la Paglina resiste come una forma di lentezza consapevole, come una pedagogia della cura. Ogni sua fibra racconta una Sicilia diversa: quella che non ha bisogno di essere esotica o pittoresca per essere straordinaria.
Quando si addenta una Cipolla Paglina di Castrofilippo, non si mangia soltanto. Si attinge a una memoria, si celebra un gesto, si riconosce una voce. Perché dentro quel sapore dolce e persistente, c’è la storia di un popolo che non ha mai smesso di dialogare con la propria terra, anche quando il silenzio sembrava prevalere.
La sagra è oggi la forma visibile di questo dialogo antico. Ma la vera festa si compie ogni giorno, quando qualcuno — ancora — pianta un bulbo nella terra rossa, e lo affida al sole. E in quel gesto, apparentemente umile, rifiorisce un’intera civiltà.