Certe città sembrano destinate a portare sulle spalle nomi più grandi di loro. Canicattì, nel cuore dell’entroterra agrigentino, è una di queste. Per molti in Italia è solo un punto sulla carta, uno snodo ferroviario secondario, un agglomerato periferico come tanti. Eppure questa città custodisce uno dei nomi più luminosi e tragici della nostra storia civile: Rosario Livatino, il “giudice ragazzino”, ucciso dalla mafia il 21 settembre 1990, sulla statale tra Canicattì e Agrigento. Aveva trentotto anni, e una fede incrollabile nella giustizia. Oggi è beato. Ma attorno alla sua figura si addensa una domanda che la città non ha ancora saputo sciogliere: cosa resta, davvero, della sua memoria?
Canicattì lo ha celebrato, certo. Ne ha intitolato scuole, piazze, aule consiliari. Ha eretto monumenti, organizzato eventi, commemorazioni, giornate della legalità. Ogni anno, puntuale, arriva la liturgia dell’omaggio: le corone, i discorsi, le delegazioni. Eppure, qualcosa non torna. Perché la memoria, quando si cristallizza nella retorica, smette di agire. E Canicattì — oggi più che mai — sembra vivere Livatino come un passato glorioso ma inerte, una statua da spolverare ogni settembre, non un’eredità viva da interrogare ogni giorno.
La città che lo ha visto nascere non è immune dalle contraddizioni. Le cronache locali parlano ancora di pizzo, di corruzione, di presenze mafiose sotterranee. I processi raccontano di imprenditori collusi, politici ambigui, silenzi opachi. E mentre il nome di Livatino viene scolpito su nuove targhe, il tessuto sociale si lacera: i giovani se ne vanno, le scuole si svuotano, le periferie si marginalizzano. Il rischio, sempre più concreto, è che la città costruisca una memoria selettiva, addomesticata, che onora il martire ma dimentica la sua rivoluzione etica.
Perché Livatino non fu solo un giudice coraggioso: fu un magistrato scomodo. Rifiutava scorte, rifiutava le scorciatoie, rifiutava perfino di firmare sentenze in bianco, come si usava fare allora, per “velocizzare” il lavoro. La sua fede non era folclore, ma fondamento di un rigore morale che lo rendeva intransigente, incorruttibile. Uno che scriveva “sub tutela Dei” sulle agende, ma che sapeva bene quanto la giustizia terrena fosse un affare pericoloso, imperfetto, contaminato. Uno che aveva capito che in Sicilia si muore non solo per aver colpito la mafia, ma anche per aver osato non piegarsi.
È questo il punto. Se Canicattì vuole davvero onorare Livatino, deve avere il coraggio di portarne avanti il pensiero, non solo il ricordo. Deve combattere la zona grigia che ancora avvolge troppi snodi della vita pubblica. Deve dire con chiarezza da che parte sta. Non basta un busto in piazza se poi si tollerano pratiche clientelari. Non serve una fiaccolata se si lascia morire il senso civico. Non si onora un beato con la retorica, ma con l’azione.
E invece, troppo spesso, la sua figura è diventata uno scudo morale dietro cui nascondere l’assenza di politica vera. I progetti educativi sono episodici, le politiche giovanili inconsistenti, le occasioni di lavoro inesistenti. Le stesse istituzioni che lo celebrano, raramente mostrano lo stesso coraggio nelle scelte quotidiane. E la città, lentamente, smette di crederci. Livatino rischia così di diventare, paradossalmente, un monumento vuoto: presente ovunque, ma ascoltato da pochi.
Ma Canicattì ha ancora una possibilità. La possibilità di farsi luogo di testimonianza autentica, di rinascita civile. Di rispondere alla sua storia con la scelta di costruire futuro. Potrebbe istituire un osservatorio permanente sulla legalità, creare una rete educativa fondata sull’esempio concreto di Livatino, attrarre energie, intelligenze, risorse. Potrebbe diventare un laboratorio di cittadinanza attiva, non solo un altare della memoria. Per farlo, però, servono scelte nette. Servono politici degni di quel nome inciso nelle lapidi. Serve uno scatto collettivo.
Perché la vera beatificazione di Livatino non è quella proclamata da Roma. È quella che accade — o dovrebbe accadere — ogni giorno nelle aule scolastiche, nei consigli comunali, nei tribunali, nelle strade. È lì che il suo nome deve tornare a vivere. E se Canicattì non saprà essere all’altezza di questa eredità, allora sarà solo una città che ha avuto un santo, ma non ha saputo seguirlo.


