C’è un’Italia che vive in affitto e non lo dice. Che firma contratti dimezzati, che paga in contanti per evitare sguardi indiscreti, che si accontenta di una stanza umida, senza finestre, perché “tanto è solo per un po’”.
Ad Agrigento, come in molte città del Sud, la casa non è solo un tetto: è un equilibrio fragile tra diritto e silenzio, tra sopravvivenza e ricatto.
Nel centro storico svuotato, tra balconi sbarrati e intonaci cadenti, sopravvivono anziani soli e famiglie che resistono. In periferia, dove l’urbanistica è diventata abbandono, proliferano micro-affitti non dichiarati, scambi tra disperati, occupazioni più o meno tacite. E in mezzo, un mercato ufficiale che sembra scritto per chi non ha bisogno: canoni alti, garanzie impossibili, richieste surreali — tre buste paga, fideiussione, genitori a garanzia anche a quarant’anni.
Il risultato? È l’invisibilità. Gente che si sposta ogni sei mesi, studenti che affittano “a voce”, madri sole che mentono per avere un indirizzo. Tutto sommerso, tutto precario. Nessuna tutela, nessun diritto esercitabile.
Poi ci sono gli sfratti. A parole sospesi, in realtà eseguiti. Il confine tra legalità e brutalità è sottile: basta non pagare due mesi per trovarsi esposti, senza difese. E la macchina giudiziaria, quando si muove, è fredda. Rispettosa dei proprietari, diffidente verso gli inquilini. Poco importa che ci siano minori, disabilità, disoccupazione. La casa si libera, punto.
Ma il vero scandalo è a monte: non esiste più una politica pubblica per l’abitare. Gli alloggi popolari sono pochi, spesso degradati, assegnati con criteri opachi e tempi infiniti. I fondi per il sostegno agli affitti arrivano a pioggia, se arrivano. E i Comuni, privi di visione, si limitano a gestire le emergenze. Come se abitare fosse un evento imprevedibile, e non un fatto strutturale.
E allora che fare, per chi vive in affitto senza potere?
Prima di tutto, sapere. Sapere che ogni contratto verbale è una trappola. Che esiste un diritto alla registrazione. Che l’Agenzia delle Entrate può intervenire anche su segnalazione. Che le associazioni degli inquilini — ancora vive, anche se stanche — possono offrire consulenza, mediazione, appoggio legale.
Poi, bisogna parlare. Raccontare, denunciare, far emergere. Perché il mercato opaco si nutre del silenzio. E ogni storia non raccontata è un precedente che si ripete. Nessuno si salverà da solo.
Infine, pretendere. Non l’elemosina, ma una politica dell’abitare che non sia solo repressione. Che non parli solo di occupazioni abusive, ma anche di abusivismo immobiliare, di rendite senza regole, di interi palazzi lasciati vuoti mentre le famiglie si arrangiano nei garage.
Abitare non è un lusso. È il primo gradino della cittadinanza. Senza casa, tutto il resto — scuola, salute, lavoro — si sgretola.
E chi lo ignora, o finge di non vedere, sta difendendo un sistema dove il bisogno diventa un crimine e il diritto una concessione.


