C’è un suono che da anni risuona, ovattato e triste, tra i colonnati anneriti dal tempo delle Terme di Sciacca: è il rumore del vuoto. Acque un tempo rigeneranti scivolano ancora nel sottosuolo, ma nessuno vi si immerge più. Muri sbrecciati, piscine asciutte, corridoi senza eco: l’abbandono ha sedimentato la sua polvere su un patrimonio che, per decenni, ha identificato la città, ne ha nutrito l’economia, ne ha scandito il ritmo. Oggi, dopo un decennio di chiusura, promesse mancate e silenzi istituzionali, l’ipotesi di una riapertura si riaffaccia. E con essa, le speranze. Ma anche le polemiche.
Il progetto, presentato con enfasi dalla Regione Siciliana, prevede l’affidamento in concessione a privati, accompagnato da un investimento pubblico volto a rendere l’operazione appetibile. In parallelo, anche le Terme di Acireale seguiranno la stessa sorte. Si parla di milioni di euro, di riqualificazioni profonde, di rilancio turistico. Ma nella narrazione ufficiale, tanto levigata quanto generica, qualcosa stride. Perché in questo grande disegno sembra mancare proprio Sciacca. Non la città come toponimo da brochure, ma la comunità reale, quella che per anni ha tenuto in vita il sogno della riapertura con manifestazioni, sit-in, comitati civici, raccolte firme, pulizie simboliche e lettere aperte.
Il punto dolente è tutto lì: si sta decidendo senza discutere. Nessun confronto pubblico, nessuna assemblea, nessuna reale interlocuzione con chi da dieci anni chiede trasparenza, partecipazione, visione. E così, la riapertura delle terme — che avrebbe potuto essere un’occasione di rinascita collettiva, di rigenerazione urbana e simbolica — rischia di diventare solo l’ennesima operazione calata dall’alto, opaca e disincarnata. Come se la città dovesse limitarsi ad applaudire e ringraziare.
Nel frattempo, la politica si frattura. Le opposizioni attaccano il sindaco per una gestione definita “chiusa e presuntuosa”, accusandolo di non aver coinvolto il consiglio comunale su un tema di evidente rilevanza strategica. Dall’altra parte, la Regione marca la distanza, ricordando che le terme sono un bene regionale e che, in fondo, ciò che conta è riaprirle, indipendentemente dai processi. Ma questo approccio tecnocratico, da manuale d’istruzioni, dimentica che i luoghi termali non sono solo immobili da valorizzare: sono contenitori di identità, memoria, orgoglio. E chi li abita ha diritto di parola.
A Sciacca, l’assenza di dialogo è vissuta come un tradimento. Non tanto per il merito del progetto — che pure solleva dubbi legittimi sulla sostenibilità, sulla trasparenza, sulla selezione dei soggetti privati — quanto per il metodo. Nessuno ha spiegato come verrà tutelata la funzione pubblica delle cure termali. Nessuno ha chiarito quale sarà il destino dell’ex stabilimento, della grotta vaporosa, del patrimonio idrotermale. Nessuno ha risposto alle richieste di controlli tecnici, di un advisor indipendente, di una governance realmente partecipata.
Intanto, le terme restano lì, a mezz’aria. Non più morte, ma nemmeno vive. Ogni promessa di rilancio suona come un’eco stonata se non è accompagnata da un ascolto reale. Perché Sciacca non ha bisogno di annunci in conferenza stampa, ma di un progetto radicato nel territorio. Le sue terme non possono diventare l’ennesima cartolina svuotata, o peggio ancora, un’occasione di speculazione camuffata da rilancio.
Forse c’è ancora tempo. Tempo per costruire un processo di trasparenza, per convocare i cittadini, per spiegare, per accogliere proposte. Perché una vera rinascita termale non può avvenire senza il consenso di chi quelle acque le conosce da sempre. E se Sciacca dovrà tornare capitale della salute e dell’ospitalità, allora che sia attraverso una scelta condivisa, non imposta. Altrimenti il rischio è di riaprire le porte, ma chiudere, una volta per tutte, il rapporto di fiducia tra istituzioni e comunità. E sarebbe un prezzo troppo alto, anche per l’oro bianco che scorre sotto terra.


