Ci sono mestieri che non conoscono pausa. Che non si fermano ad agosto, che non guardano il calendario, che continuano a produrre, sistemare, accogliere anche quando la città rallenta.
Sono i mestieri silenziosi di chi tiene in piedi la quotidianità: parrucchieri, panificatori, gommisti, elettrauto, idraulici. Piccoli artigiani, piccoli commercianti, piccole botteghe — che poi tanto piccole non sono, perché senza di loro si ferma il respiro stesso del vivere urbano.
Aperti sempre, chiusi mai. “Solo la domenica”, dicono. Ma anche la domenica, qualcuno bussa. Per una piega urgente, per un rubinetto rotto, per un pane “fuori orario”. E chi lavora non dice di no. Per abitudine. Per senso del dovere. Ma più spesso, per necessità.
Perché dietro quella serranda che si alza all’alba c’è un sistema che non protegge. Nessun contratto collettivo può compensare l’assenza di ferie vere. Nessuna normativa garantisce il diritto al riposo se il margine economico è stretto, se l’affitto incombe, se il cliente — magari turista — “pretende”.
Il risultato è una forma di lavoro continuo e sottotraccia, che non si chiama schiavitù ma le somiglia. Si lavora con il caldo, senza climatizzazione. Si lavora in piedi, con dolori ignorati. Si lavora con il corpo, ma anche con la testa: con l’ansia di restare indietro, di perdere il cliente affezionato, di dover chiudere. Per sempre.
Eppure nessuno ne parla. Nessun piano anti-caldo prevede ristoro per chi è dentro a un forno artigianale. Nessuna campagna di prevenzione riguarda chi passa otto ore in un laboratorio per parrucchieri, sotto il phon e i vapori. I lavoratori autonomi restano ai margini del discorso pubblico, come se fossero un’Italia a parte, meno degna, più resistente, più adattabile.
Ma la resistenza, a un certo punto, cede.
E allora — se proprio non si può chiudere — bisogna almeno imparare a proteggersi.
Sospendere il servizio per venti minuti e bere. Pretendere turni interni che alternino caldo e fresco. Fare rete tra colleghi: non solo per parlare del mestiere, ma per non sentirsi soli in un sacrificio che non è inevitabile. Investire — dove possibile — in ventilazione, materiali ergonomici, strumenti che riducano lo sforzo fisico.
Piccole strategie che non risolvono, ma aiutano. Che trasformano la fatica in cura, almeno di sé stessi.
Perché il cliente capisce. Capisce se lo si educa. Capisce che anche il pane ha bisogno di una pausa. Che anche il parrucchiere è un corpo, non una funzione. Che l’artigiano non è una macchina.
E allora, forse, basterebbe che lo Stato — o almeno i Comuni — riconoscano questi mestieri non solo come tassabili, ma come presìdi di civiltà. Perché è facile esaltare il piccolo commercio quando serve a fare folklore. Più difficile è difenderlo quando chiede diritti, tutele, riposo.
Ma è da lì che si misura una società: da come tratta chi lavora quando tutti gli altri riposano.


