Non c’è bisogno di grandi eventi per misurare il grado di civiltà di un territorio. A volte basta un ramo, una radice, un albero inclinato da anni, lasciato lì a piegarsi con lentezza verso la strada, il marciapiede, la testa di qualcuno.
Il verde urbano, ad Agrigento come in molte città del Sud, non è un patrimonio: è un rischio. Un’incognita appesa sopra la testa dei cittadini.
Si cammina sotto ficus monumentali che grondano pece e insetti, accanto a pini dalle radici sollevate, in piazze dove l’unica vegetazione che cresce è quella dei cespugli secchi, mai potati. I giardini pubblici somigliano a archeologie botaniche: spazi disegnati per la vita e poi dimenticati, dove l’erba alta nasconde le panchine e le aiuole marciscono tra rifiuti e incuria.
Eppure, nessuno lo dice, ma la manutenzione del verde è un servizio essenziale, al pari dell’acqua o dell’illuminazione. Non è decoro: è sicurezza, salute, vivibilità. Quando cade un ramo, non è la natura a colpire: è l’incuria a ferire.
La responsabilità è chiara, anche se spesso annegata nella palude dei rimpalli. Gli alberi pubblici sono affidati ai Comuni, che dovrebbero pianificare potature, abbattimenti, cure stagionali. Ma la realtà è un’altra: interventi a chiamata, emergenze gestite con fondi risicati, appalti esterni affidati al ribasso. Si pota quando si può, si abbate quando è troppo tardi, si interviene solo dopo che qualcuno si è fatto male.
E allora la domanda — amaramente concreta — è: cosa fare se ti cade un ramo in testa?
La risposta è un paradosso. Denunciare, certo. Documentare tutto: luogo, orario, condizioni dell’albero, testimonianze. Ma prepararsi anche a una trafila lunga, burocratica, ostile. Perché l’ente pubblico raramente ammette la propria negligenza. Perché l’assicurazione comunale copre solo in presenza di “colpa grave dimostrata”. E perché, come sempre, il danno materiale è più facile da provare di quello morale.
Ma prima ancora dell’incidente, c’è l’atto civile della segnalazione. Fotografare, inviare PEC, scrivere agli URP, insistere con i referenti del verde pubblico. Farlo con metodo, senza arrendersi al “tanto non serve”. Perché ogni segnalazione costringe un’amministrazione a registrare la propria inadempienza. E ogni voce che insiste rompe il muro della rassegnazione.
Il verde abbandonato non è un destino. È il sintomo visibile di una politica che ha smesso di occuparsi dello spazio comune. Ma i cittadini, quelli che non hanno giardini privati, che portano i figli nei parchi pubblici, che si muovono a piedi, hanno il diritto di esigere cura. Perché l’albero che crolla non è solo una sventura: è una colpa lasciata crescere in silenzio.
E forse un giorno, quando ci chiederanno se valeva la pena lottare per un ramo, potremo rispondere che sì, ne valeva la pena. Perché in quel ramo c’era nascosto tutto: il rispetto, la giustizia, la misura della nostra convivenza.


