Agrigento, o Girgenti come si chiamava fino al 1927, è più di un semplice fondale geografico per Luigi Pirandello; è un epicentro tellurico dell’anima, una matrice di contrasti insanabili che ne hanno plasmato l’esistenza e l’opera. Nato nel 1867 in una villa isolata in contrada Càvusu (toponimo che evoca il caos primigenio, poi italianizzato in “Caos”), Pirandello sembra predestinato a esplorare le fratture dell’identità, la maschera sociale e l’ineluttabile relativismo della realtà. Figlio di Stefano Pirandello, un garibaldino fiero e autoritario, e di Caterina Ricci Gramitto, donna di indole più mite e sensibile proveniente da una famiglia di patrioti antiborbonici, Luigi cresce in un ambiente saturo di memorie risorgimentali, tensioni familiari e l’odore acre dello zolfo delle miniere paterne – un business che segnerà tragicamente il destino economico della famiglia.
La Sicilia di Pirandello non è quella oleografica e solare di certi viaggiatori nordici, ma un luogo di passioni violente, codici sociali rigidi, disillusioni post-unitarie e una sotterranea percezione dell’assurdo. La sua formazione iniziale avviene tra Girgenti e Palermo, ma è il trasferimento a Roma e soprattutto il soggiorno a Bonn, in Germania (1889-1891), a segnare una svolta intellettuale cruciale, spesso sottovalutata rispetto alle sue radici siciliane. A Bonn, Pirandello non solo si laurea con una tesi sulla fonetica del dialetto di Girgenti – segno di un legame viscerale con la terra mai reciso – ma assorbe la filosofia tedesca, in particolare l’idealismo e le teorie estetiche romantiche e post-romantiche, che affinano la sua sensibilità verso il conflitto tra forma e vita, apparenza e sostanza. Legge i filosofi del sospetto e si confronta con una cultura che analizza la soggettività in modi nuovi, un’influenza che si innesta sul suo vissuto siciliano, generando una sintesi unica.
Un aneddoto poco noto di questo periodo riguarda la sua intensa corrispondenza con la sorella Lina. In queste lettere giovanili, emerge un Pirandello sorprendentemente romantico, a tratti quasi wertheriano, combattuto tra slanci idealistici e una precoce malinconia. Scrive di musica, di poesia, del paesaggio renano, ma traspare già un’inquietudine esistenziale, un senso di inadeguatezza rispetto alle aspettative paterne e una ricerca febbrile di autenticità che prefigura i drammi dei suoi futuri personaggi.
Il ritorno in Italia e il matrimonio combinato nel 1894 con Maria Antonietta Portulano, figlia di un socio d’affari del padre, sembrano incanalare la sua vita verso una tranquilla esistenza borghese, dedicata all’insegnamento (diventa professore di stilistica all’Istituto Superiore di Magistero Femminile a Roma) e alla scrittura. Ma il destino, o il Caos, è in agguato. Nel 1903, un catastrofico allagamento della miniera di zolfo di Aragona, in cui il padre Stefano aveva investito l’intera dote di Antonietta, provoca il dissesto finanziario della famiglia. L’impatto su Antonietta è devastante: la notizia le causa uno shock che degenera rapidamente in una grave malattia mentale, una forma di paranoia e gelosia delirante che la tormenterà per il resto della vita.
Questo dramma privato diventa il laboratorio esistenziale di Pirandello. Per anni, egli si prende cura della moglie in casa, scrivendo di notte mentre lei dorme o delira, vivendo sulla propria pelle la tragedia della follia, della comunicazione interrotta, della realtà soggettiva che si scolla dal consenso comune. Un dettaglio straziante, raramente enfatizzato, è la natura specifica delle ossessioni di Antonietta: era patologicamente gelosa della figlia Lietta, accusando il marito di attenzioni incestuose. Questa dinamica familiare infernale, vissuta nel quotidiano per oltre quindici anni prima del ricovero definitivo di Antonietta nel 1919, è la materia incandescente da cui nascono capolavori come Enrico IV, Il berretto a sonagli, Pensaci, Giacomino! e, naturalmente, i Sei personaggi in cerca d’autore. La “stanza della tortura” della sua casa diventa metafora del palcoscenico dove si recita il dramma dell’esistenza.
È in questi anni di sofferenza che Pirandello elabora la sua poetica dell’Umorismo, cristallizzata nel saggio omonimo del 1908. L’umorismo pirandelliano non è semplice comicità; è la capacità di cogliere il “sentimento del contrario”. Di fronte a una situazione apparentemente ridicola (l'”avvertimento del contrario”, come l’anziana signora goffamente imbellettata), l’umorista non si ferma alla risata, ma riflette sulle ragioni profonde di quel comportamento (la paura della vecchiaia, la solitudine), provando compassione e comprendendo il dramma nascosto sotto la maschera comica. Questa visione del mondo, che smonta le certezze e rivela la complessità tragica dietro l’apparenza, è la chiave di volta della sua intera produzione.
La vera fama internazionale arriva con il teatro, in particolare dopo la “prima” scandalosa dei Sei personaggi in cerca d’autore al Teatro Valle di Roma nel 1921. La serata si concluse in una rissa, con il pubblico diviso tra entusiasti e detrattori che gridavano “Manicomio! Buffone!”. Un aneddoto meno noto racconta che Pirandello, presente in sala con la figlia Lietta, affrontò la folla inferocita all’uscita, difendendo la sua opera con veemenza. Quella sera segnò la nascita del teatro moderno: la rottura della quarta parete, la metateatralità, i personaggi che rivendicano la loro autonomia rispetto all’autore, la vita che irrompe sulla scena – temi che scardinavano le convenzioni del dramma borghese. Pirandello non si limitò a scrivere per il teatro, ma fondò anche una sua compagnia, il Teatro d’Arte di Roma (1925-1928), con cui girò il mondo, sperimentando direttamente la messa in scena e vivendo le difficoltà economiche e organizzative dell’impresa teatrale – un’esperienza che arricchì ulteriormente la sua riflessione sul rapporto tra testo e rappresentazione.
Il conferimento del Premio Nobel per la Letteratura nel 1934 (“per il suo audace e ingegnoso rinnovamento dell’arte drammatica e teatrale”) consacra la sua statura mondiale, ma coincide con il periodo più controverso della sua biografia: il rapporto con il Fascismo. Pirandello aderì pubblicamente al regime nel 1924, all’indomani del delitto Matteotti, un gesto che suscitò scalpore e che è stato variamente interpretato: opportunismo per ottenere finanziamenti per il suo Teatro d’Arte, ingenuità politica, sincera (ma forse equivocata) adesione a un ideale di ordine nazionale, o forse un complesso tentativo di trovare protezione in un mondo caotico. Un aneddoto significativo, ma che rivela l’ambiguità del rapporto, riguarda la sua decisione di donare la medaglia del Nobel alla campagna fascista “Oro alla Patria” nel 1935. Sebbene fosse un gesto pubblico di lealtà, fonti vicine suggeriscono che Pirandello mal sopportasse le ingerenze del regime nella cultura e cercasse soprattutto di essere lasciato in pace per continuare il suo lavoro. Si narra di un suo colloquio con Mussolini in cui, più che favori, chiese semplicemente autonomia. Il Fascismo, d’altro canto, usò Pirandello come fiore all’occhiello culturale all’estero, pur guardando con sospetto alle implicazioni potenzialmente sovversive del suo pensiero relativista.
Negli ultimi anni, Pirandello lavora al suo ultimo grande ciclo teatrale, “I miti” (La nuova colonia, Lazzaro, e l’incompiuto I giganti della montagna), opere dense di simbolismo in cui esplora la possibilità di creare comunità utopiche basate sull’arte o sulla fede, destinate però a scontrarsi con la brutalità del potere e della realtà materiale. Muore a Roma nel dicembre 1936, mentre supervisiona le riprese di un film tratto da Il fu Mattia Pascal.
Le sue ultime volontà sono esse stesse un atto pirandelliano, un tentativo estremo di sottrarsi alla “maschera” delle convenzioni sociali anche dopo la morte. Lascia disposizioni precise: “Sia lasciata passare in silenzio la mia morte. Agli amici, ai nemici preghiera non che di parlarne sui giornali, ma di non farne pur cenno. Né annunzi né partecipazioni. Morto, non mi si vesta. Mi s’avvolga nudo in un lenzuolo. E niente fiori sul letto e nessun cero acceso. Carro d’infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno m’accompagni, né parenti, né amici. Il carro, il cavallo, il cocchiere e basta. Bruciatemi”. 1 Chiede che le sue ceneri siano disperse o, in alternativa, murate in una “rozzo pietra” nella campagna di Girgenti, presso la sua casa natale. Un aneddoto poco conosciuto riguarda proprio il travagliato viaggio delle sue ceneri: a causa delle leggi dell’epoca e degli eventi bellici, l’urna contenente le ceneri rimase per anni al cimitero del Verano a Roma, poi fu trasferita ad Agrigento solo nel 1947, e tumulata definitivamente sotto una roccia vicino alla casa natale di Caos solo nel 1962, quasi trent’anni dopo la sua morte, come a suggellare un ritorno difficoltoso e mai pacificato alla terra d’origine.
Luigi Pirandello rimane una figura monumentale del Novecento, uno scrittore che, partendo dalle radici profonde e spesso dolorose della sua Sicilia agrigentina, ha saputo diagnosticare con lucidità sconcertante le crisi dell’uomo moderno: la perdita dell’identità unitaria, il conflitto tra vita e forma, la relatività della verità, l’angoscia dell’incomunicabilità. Il suo “Caos” natale non fu solo un luogo fisico, ma divenne la metafora stessa di un mondo interiore ed esteriore frammentato, che egli seppe trasformare in arte universale, costringendoci ancora oggi a interrogarci su chi siamo veramente dietro le innumerevoli maschere che indossiamo.