Non c’è fragore nelle ondate di calore. Non c’è vento, non c’è clamore, non c’è nemmeno pioggia che annunci la fine. Solo un silenzio immobile che s’incolla alla pelle, una luce che acceca e che pare non voler più tramontare. L’estate nel cuore della Sicilia è diventata una stagione estrema, un campo di battaglia climatico che non ammette distrazioni. In territori come quello agrigentino, dove il sole non accarezza ma schiaccia, difendersi non è più semplice igiene di vita: è esercizio di sopravvivenza.
Negli ultimi anni, i bollettini si sono fatti cupi. Temperature che superano i 45 gradi, umidità che toglie il respiro, notti tropicali che impediscono al corpo di riprendersi. A pagare il prezzo più alto sono sempre gli stessi: anziani, bambini, persone fragili, lavoratori esposti. Ma nessuno è veramente al sicuro. Il caldo non fa distinzioni: consuma, stanca, confonde, toglie lucidità. E uccide.
I tecnici parlano di “stress termico”, di “sindrome da calore”. Ma la realtà è più semplice, e più brutale: il corpo umano, sottoposto a un caldo prolungato e aggressivo, cede. Prima lentamente, poi all’improvviso. Si disidrata, si sregola, si arrende. La cronaca si riempie di colpi di calore, di malori in strada, di anziani trovati soli e senza forze. Ogni estate, una contabilità silenziosa di vittime che avremmo potuto evitare.
Eppure, continuiamo a sottovalutare. Continuiamo a vivere il caldo come una fastidiosa parentesi, una prova di resistenza da affrontare con aria condizionata e bottiglie d’acqua. Ma la verità è che servirebbe una consapevolezza collettiva, un salto di civiltà. Servirebbero città pensate per proteggere, quartieri in grado di offrire ombra, reti sociali capaci di tendere la mano prima che sia troppo tardi. Invece, ci troviamo a fare i conti con case senza isolamento, asfalto che ribolle, anziani abbandonati nelle periferie senza un ventilatore.
I consigli esistono, e sono noti: evitare l’esposizione nelle ore più calde, mantenere il corpo idratato, preferire ambienti freschi, usare tessuti leggeri, fare docce tiepide. Ma il vero problema non è l’assenza di regole. È l’assenza di uno Stato che le renda praticabili. Perché non tutti hanno una casa ventilata, non tutti possono permettersi un condizionatore, non tutti hanno qualcuno che bussi alla porta per sapere se stanno bene.
Le ondate di calore non sono più eventi eccezionali: sono la nuova normalità climatica. E chi le subisce è il volto di un’Italia che si sta lasciando alle spalle — con leggerezza criminale — l’idea stessa di protezione pubblica. Il caldo non è solo una questione meteorologica. È un indice di fragilità sociale, un acceleratore di diseguaglianza.
Per difendersi davvero, non basta chiudere le persiane. Bisogna aprire gli occhi.


