Si muovono silenziosi tra stanze vuote e terrazzi assolati. Si affacciano ai vetri, osservano il mondo scorrere oltre la soglia di casa, aspettano un rumore di chiave, un richiamo, una ciotola. Sono i nostri animali domestici, compagni muti di una vita spesso troppo piena di parole.
A guardarli da fuori sembrano fortunati: un tetto, del cibo, qualche coccola serale. Ma a guardarli bene, molti di loro vivono in una solitudine profonda, fatta di ore immobile, di gesti ripetuti, di affetto somministrato a intermittenza.
Il cane abbandonato su un balcone, il gatto che si aggira tra letti disfatti, il pappagallo che urla al vuoto. La città è piena di presenze dimenticate. E il paradosso è questo: abbiamo portato gli animali dentro le nostre case, ma spesso li abbiamo esclusi dalla nostra vita.
Non è crudeltà . È distrazione. È l’illusione che basti il cibo, un tappetino, una ciotola pulita. Che basti portarli giù al guinzaglio, che un po’ di carezze serali compensino le dieci ore di assenza. Che non capiscano, che non soffrano. E invece capiscono. Soffrono. Reagiscono.
Il disagio animale ha un volto quotidiano: abbaiare compulsivo, comportamenti ossessivi, apatia. Ma ha anche un volto che non si vede: quello della mancata relazione. Perché un animale domestico, quando lo si sceglie, non è un accessorio né un surrogato affettivo. È una responsabilità . Una convivenza. Una forma di alleanza che esige tempo, spazio, equilibrio.
La città moderna non aiuta. Le giornate lunghe, i turni impossibili, gli spazi ridotti, le regole condominiali, i parchi dove gli animali sono tollerati ma non accolti. Eppure, è proprio in questi ambienti ostili che la qualità della relazione emerge con più forza. Chi riesce a far vivere bene un animale in città , senza delegare tutto al veterinario o alla dog-sitter, ha compreso qualcosa di essenziale: che prendersi cura è un atto lento, quotidiano, silenzioso.
Poi c’è il capitolo dell’abbandono, che ogni estate ritorna con la puntualità dell’orrore. Cani lasciati sull’autostrada, gatti chiusi nei garage, tartarughe gettate nei canali. Non è miseria, è vigliaccheria. Chi abbandona non è povero: è irresponsabile. Ha tradito un patto. E chi assiste, chi sa e tace, ne è complice.
Ma non c’è solo il dolore. C’è anche una possibilità di riscatto, di relazione vera, di reciprocità . Chi condivide davvero la vita con un animale sa che ogni gesto – la ciotola lavata, la passeggiata lenta, il gioco ripetuto mille volte – ha un valore educativo. Fa bene a chi riceve, ma trasforma anche chi dà .
Perché il problema non è mai stato l’animalismo sentimentale, ma l’egoismo travestito da amore.
E allora, forse, dovremmo cominciare a guardare i nostri animali quando non ci guardano. È lì che si capisce tutto.


